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Le convenzioni di stima
Concertare le valutazioni per decidere le politiche
di Roberto Coizet
Responsabile per la diffusione del Progetto CLEAR

 

I bilanci ambientali pubblici, così come li stiamo sperimentando in questi anni, rappresentano una sfida culturale ben maggiore di quanto risulti dalla loro innocua apparenza contabile.
La posta in gioco, dal punto di vista del metodo, è quella di ottenere o no un equilibrio efficiente tra rigore scientifico delle tecniche applicate e concretezza politica degli interventi possibili.
Non è una sfida da poco, perché l’approccio scientifico e quello politico si muovono su due scale diverse.
La politica ambientale deve trovare soluzioni, spesso dettate dall’emergenza, che vanno agite alla svelta in un quadro dove i rapporti causali tra un fenomeno e l’altro non sono sempre chiariti con certezza. L’azione concreta – sotto la pressione delle diverse forze in campo e delle opportunità reali – prevale sulla definizione sistematica di ciascuno degli elementi in gioco.
Le scienze ambientali consolidano i propri strumenti nei tempi lunghi della verifica e del confronto, e validano una metodologia solo quando questa trova conferma nel rapporto coerente con le altre discipline implicate nell’analisi. Il rigore formale e la completezza sono preliminari all’applicazione.
Il problema è complicato dal fatto che sia le scienze che le politiche ambientali sono in una fase di transizione, alla ricerca di quali siano i confini esatti entro i quali racchiudere il concetto di “ambiente” (al proposito si veda Ma di che ‘Ambiente’ stiamo parlando?, "Contabilità ambientale n. 1"). Questo implica che quando occorre identificare le “attività ambientali”, per poterle contabilizzare e rendicontare, la questione è semplice fintanto che si parla di rifiuti, tutela delle acque, emissioni in atmosfera o gestione delle aree verdi – considerate da sempre “ambientali” – ma diventa molto più complessa quando si ha a che fare con altre attività, come i trasporti, la sanità o l’educazione, che certamente con l’ambiente hanno qualcosa a che fare ma è difficile stabilire quanto.
Inoltre il tentativo di descrivere le attività ambientali come partite contabili all’interno di un bilancio si scontra con quella che è forse la contraddizione principale in qualunque discussione che riguardi le risorse, e cioè con la difficoltà di conciliare le discipline economiche con l’ambiente.
La scienza economica, classica e neoclassica, è cresciuta sulle dinamiche del mercato, concentrandosi sui criteri che regolano la domanda e l’offerta di merci cui è attribuito un valore monetario di scambio. Di conseguenza non ha mai preso seriamente in considerazione alcune risorse essenziali che non sono oggetto di compravendita e il cui valore sta esclusivamente nel fatto che possono e devono essere usate da tutti. L’aria, la biodiversità, la fascia protettiva di ozono o l’equilibrio climatico non sono stati oggetto di analisi in quanto non c’era un’unità di misura (un valore monetario) con la quale classificarli.
Negli anni più recenti le discipline economiche hanno dovuto prendere in considerazione i fattori ambientali, a fronte dell’evidenza degli investimenti implicati, ma – potremmo dire – controvoglia, affannandosi a tradurre ognuno dei fenomeni implicati solo nelle componenti che potevano essere monetizzate secondo la sua sintassi usuale. Così sono nate le “esternalità” (costi ambientali che un’attività economica induce nel contesto sociale e che può eventualmente “internalizzare”), oppure i costi di protezione o ripristino delle principali risorse ambientali (purché già dotati di un’evidenza contabile) o ancora i tentativi di valutazione del patrimonio naturale, ostinatamente ricondotti a valori monetizzabili di mercato. È una strumentazione ancora in fase di collaudo, che rivela una certa goffaggine quando scende nelle applicazioni concrete (per fare un esempio, alcune scuole di pensiero economico sostengono: “Quanto sarebbe disposta a pagare la signora Rosa per godere di un’atmosfera più salubre? Bene, quello, secondo il modello dell’utilità marginale, è il valore corrente dell’aria pulita…”).

In questo contesto i bilanci ambientali pubblici, in particolare quelli sviluppati all’interno del Progetto CLEAR, tentano di raggiungere l’equilibrio di cui si parlava all’inizio ricorrendo inevitabilmente all’approssimazione e al buon senso.
Come avviene spesso nelle attività con una forte componente sperimentale, si conosce con certezza la direzione in cui andare ma non si è altrettanto certi degli strumenti con cui raggiungere il risultato. Occorre provare, verificare e riprovare, senza farsi mettere in soggezione dal fatto che i metodi non possiedono ancora il rigore scientifico richiesto. L’obiettivo è fornire strumenti ai decisori, strumenti di orientamento prima ancora che di conoscenza esauriente, finalizzati a decisioni rapide e concrete. Ovviamente, meglio se l’indagine è accurata, ma una certa imprecisione è accettabile per raggiungere lo scopo. Soprattutto se il problema ha i caratteri dell’emergenza: se si deve salvare un bambino che sta affogando, non ci viene in mente come prima cosa quale sia la tecnica più vantaggiosa per ottenere l’ottimizzazione degli attriti in un corpo fluido. Ci si butta e basta. La necessità del risultato prevale sull’eleganza formale del metodo e la sua attendibilità scientifica.

Quindi, legittimità dell’approssimazione e del buon senso. Ma a condizione che l’una e l’altro siano esplicitamente dichiarati, e validati da una concertazione tra i principali interpreti implicati.
È questo il senso delle cosiddette “convenzioni di stima”.
Con questa formula, infatti, si intendono tutte le operazioni con le quali si cerca di attribuire un valore (a un’attività o a una risorsa) in assenza di altri criteri oggettivi utilizzabili. In altri termini, quando non c’è a disposizione un metodo “scientifico” per contabilizzare un valore ambientale, ci si mette d’accordo su un criterio convenzionale, che può non essere del tutto rigoroso ma quantomeno rappresenta la migliore approssimazione possibile e, soprattutto, diventa uno standard che può essere quantificato, contabilizzato e valutato nel tempo.
I vantaggi sono evidenti: da un lato diventa possibile contabilizzare fenomeni che altrimenti non potrebbero entrare nel bilancio; dall’altro la convenzione promuove la concertazione tra le parti, e favorisce processi di confronto e approfondimento che possono essere migliorati in futuro.
Le convenzioni di stima possono essere utilizzate per valutare l’entità del patrimonio naturale, le attività ambientali o quelle che presentano componenti ambientali di difficile identificazione; ed è soprattutto in quest’ultimo caso che si rivelano più utili.
Solitamente identificare come “ambientale” o “non ambientale” una certa azione dipende dalla prossimità del nesso causale tra quell’azione e un effetto ambientale riconoscibile. Se il rapporto causale è diretto (gli scarichi inquinanti rendono l’acqua imbevibile) l’azione viene identificata (limitare gli scarichi è un’ “azione ambientale” di tutela). Se invece è più indiretto (l’inquinamento atmosferico aumenta le patologie respiratorie) si fa più fatica a rintracciare il nesso e si tende a considerare separatamente i problemi e i costi relativi.
In realtà un nesso anche indiretto può essere molto importante e un’analisi accurata potrebbe consigliare di intervenire proprio a livello ambientale per contenere alcuni svantaggi sociali, sanitari ed economici pagati dalle popolazioni residenti. Ma allora si può dire che c’è una quota ambientale nei costi sanitari sostenuti da un ente? O, reciprocamente, che un investimento ambientale sulla limitazione delle emissioni in atmosfera produce risparmi nelle spese per la salute? E quali sono queste quote? Come computare l’effetto ambientale dell’educazione, tradotto in comportamenti più sostenibili e, conseguentemente, in riduzione dei costi derivanti dagli impatti negativi? C’è una componente ambientale nella pianificazione urbanistica? E di quale entità?
È a questo genere di interrogativi che danno risposta le convenzioni di stima. Caso per caso la scelta delle formule applicate deve essere il risultato di una concertazione e di una taratura critica dello strumento contabile nel territorio di riferimento.

Il caso meglio documentato di convenzione di stima è stato sviluppato all’interno delle esperienze pilota di contabilità ambientale condotte dai comuni di Amiens, Nantes, Lione e Poitiers, nell’ambito di un programma di ricerca promosso dal Ministero dell’Ambiente francese.
In particolare, si è cercato di dare una definizione contabile della “componente ambientale” dei trasporti pubblici. Il ragionamento è stato sviluppato secondo le tappe seguenti:
- Prima ipotesi: considerare come componente ambientale, all’interno dei costi totali sostenuti per il trasporto pubblico, solo la quota riferibile a scelte tecniche dichiaratamente ambientali (introduzione di mezzi elettrici, GPL o metano).
Lo schema è di facile applicazione, ma non riesce a tener conto di uno dei principali obiettivi ambientali del trasporto pubblico, quello cioè di sostituire o limitare l’uso di mezzi privati.
- Seconda ipotesi: assimilare al deficit di esercizio tutte le spese sostenute per l’ambiente nell’ambito dei trasporti.
Questa soluzione (oltre a non risolvere il problema di quali costi valutare) comporta rischi politici, in quanto non evidenzia il nesso tra investimenti ambientali ed efficienza del servizio e potrebbe legittimare gestioni “al risparmio” meno sostenibili.
- Terza ipotesi: ricavare la componente ambientale da un’analisi degli utilizzatori del servizio pubblico. Si considerano due gruppi: gli utenti di base (quelli che per ragioni socioeconomiche non potrebbero comunque fare a meno del servizio pubblico) e gli utenti “svincolati” (cioè coloro che, pur possedendo un mezzo di trasporto alternativo, scelgono comunque il mezzo pubblico). La componente ambientale corrisponde così al totale dei costi attribuibili agli utenti svincolati.
Questa convenzione, benché non del tutto soddisfacente, viene adottata, perché ha il vantaggio di porre in evidenza un elemento strategico generale della politica dei trasporti e consente di valutarne gli sviluppi nel tempo.

Come si vede, le convenzioni di stima, anche le più laboriose, producono risultati che non vanno mai considerati definitivi. Si tratta in effetti di uno strumento pragmatico, che consente l’operatività in situazioni che non sarebbero risolvibili altrimenti e promuove la riflessione e il confronto tra i diversi operatori.
L’esercizio può essere svolto nelle forme più diverse, a seconda delle disponibilità e degli interessi prevalenti a livello locale. L’importante è calibrare la discussione agli obiettivi che ci si propone, senza scivolare nelle insidie delle problematizzazioni a cascata che, soprattutto in campo ambientale, rischiano di ramificare ogni questione all’infinito.
Nella pratica, potremmo schematizzare le convenzioni di stima in tre livelli, rispetto ai quali è bene operare una scelta prima di intraprendere la discussione.

- Primo livello: parlare la stessa lingua per prendere decisioni
Non c’è modo di fare analisi dettagliate e ci si affida alla valutazione degli operatori.
Ad esempio, l’assessore competente ritiene che gli investimenti per le rotonde spartitraffico vadano considerati “ambientali per il 30% del totale impegnato” e il resto dell’amministrazione è d’accordo. Evidentemente non c’è nulla di scientifico nella convenzione, ma essa rivela una volontà e un’attenzione strategica importante, che assume un significato ancora maggiore quando viene trasposta nel bilancio ambientale e presentata in modo trasparente ai cittadini. I criteri tecnici non possono essere condivisi, ma vengono condivisi i significati e gli impegni: quanto basta perché la comunità locale possa, su quel tema, intendersi parlando la stessa lingua.
- Secondo livello: rendere visibili le relazioni tra attività diverse
Si riesce a fare un’analisi, concertando non solo la percentuale di costi pertinente all’ambiente ma anche il “perché”, cioè individuando un criterio definito da cui risulta quella percentuale (come nel caso dell’esempio francese citato più sopra).
Ad esempio, applicando criteri concertati si rileva che per l’anno in corso la componente ambientale nella sanità corrisponde al 12% dei costi totali e quella nei trasporti al 18%. Rispetto all’esempio precedente (primo livello) la situazione è sostanzialmente diversa. Infatti, poiché la percentuale non è stata stabilita “a occhio” ma in base a un criterio quantificabile, diventa possibile controllare anno dopo anno le variazioni e individuare i trend. Inoltre, l’aver individuato un nesso specifico tra attività diverse (nell’esempio, tra sanità, trasporti e ambiente), consente agli amministratori di programmare e monitorare politiche integrate, favorendo la collaborazione tra ambiti diversi.
- Terzo livello: delineare un modello generalizzabile
L’ente decide di sviluppare un’analisi approfondita, su una attività che considera particolamente significativa, e predispone un modello che può essere adattato e applicato altrove.
Ad esempio si decide di analizzare la componente ambientale nell’attività di recupero e valorizzazione dei centri storici. I costi vengono suddivisi e “parametrati” in alcune componenti significative (ad esempio: incremento del turismo, valorizzazione del patrimonio monumentale, recupero di edifici con conseguente riduzione di altri impatti insediativi ecc). La convenzione viene applicata dall’ente ma, localizzando gli impegni di spesa per ciascun parametro, può essere utilizzata efficacemente da altri enti che presentino un centro storico con caratteristiche similari.

È auspicabile che la moltiplicazione dei bilanci ambientali pubblici diffonda questa pratica di riflessione e concertazione, arricchendo anche sotto questo aspetto la “cassetta degli attrezzi” per la sostenibilità a disposizione della amministrazioni locali.

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