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Ma di che “Ambiente” stiamo parlando?
di Roberto Coizet
Responsabile per la diffusione del Progetto CLEAR-LIFE

Un concetto che cambia
Primo scenario: “Ambiente” è l’insieme delle risorse naturali
Secondo scenario: “Ambiente” è l’interazione
tra le risorse naturali e le attività umane

Terzo scenario: “Ambiente” è l’insieme
di tutte le risorse disponibili
Gestire la transizione
Educare le idee (far capire il problema)
Mirare al futuro (preparare quello che si intuisce)
Provare e riprovare (con la “cassetta degli attrezzi”)

 

Rio de Janeiro, Kyoto, Stoccolma, Aalborg, fino a Seattle, Porto Alegre e Johannesburg.
Il dibattito sull’ambiente e la sostenibilità si muove in una geografia planetaria, e non c’è conferenza internazionale, G8 o convegno di una certa risonanza in cui non si discuta di questi temi.
Sono questioni che interessano la comunità globale, ma riguardano sempre più ogni collettività, a prescindere dalla sua dimensione. Tanto che, quando si studiano nuove formule per migliorare le politiche locali e si affronta la cosiddetta “riforma della governance”, tutte le ricerche e i programmi sono tenuti, in un modo o nell’altro, a prendere in considerazione il problema ambientale.
Il tema è così ricorrente e generalizzato che a volte assume un’impronta un po’ convenzionale, come un riconoscimento doveroso a un argomento di moda o un richiamo, vagamente esorcistico, ai grandi principi della civiltà.
Ma l’ambiente è davvero un riferimento importante per migliorare le politiche? L’attenzione ambientale è una vecchia rivendicazione o un’idea innovativa? E soprattutto, che cosa intendiamo per “ambiente”?

Questi interrogativi valgono in generale, ma diventano più stringenti se ci si riferisce alle amministrazioni locali, cioè a quegli enti che sono contemporaneamente depositari delle risorse ambientali e diretti responsabili della loro gestione. Quindi, cosa significa per un ente locale occuparsi di ambiente?
La questione è delicata perché oggi, in Italia, le diverse unità di governo del territorio stanno assumendo un ruolo sempre più importante. E’ un nuovo protagonismo che dipende da vari fattori.
Per una parte è riconducibile a una specie di “crisi di adattamento” della rappresentatività politica a livello nazionale, che fatica a farsi interprete dei bisogni, delle aspettative e dei valori che i cittadini vorrebbero affidare alle istituzioni di governo. La dimensione internazionale della politica e la nascita di organismi sovranazionali aumenta inevitabilmente la distanza – fisica e linguistica – tra chi fa le scelte generali (i governi centrali) e chi le applica nel territorio (le comunità locali). E diventa necessario rinnovare rapidamente le formule di partecipazione per ristabilire il collegamento con una realtà sociale sempre più mobile e articolata.
La situazione è diversa in una provincia, un comune o una piccola comunità locale, dove possono essere attivate modalità di confronto e partecipazione “su misura”, che rispecchiano le priorità concrete e possono restituire ai cittadini la sensazione di costruire un rapporto reale con chi li amministra.
C’è poi un altro elemento: le amministrazioni locali stanno sviluppando una progettualità vivace e fantasiosa di cui non c’è riscontro a livello nazionale. Nascono nuove soluzioni per la gestione delle risorse, l’organizzazione dei servizi, la rendicontazione delle attività e il confronto pubblico.

Per questo diventa importante studiare gli strumenti più adatti per la gestione delle politiche territoriali. La crescita “dal basso” di soluzioni pertinenti e originali, la loro aggregazione in piani coordinati che armonizzano progressivamente i diversi livelli delle amministrazioni, dal Comune alla Provincia alla Regione, sono espressioni di una prospettiva che sembra riaccendere il desiderio di “politica” dentro uno scenario che altrimenti potrebbe risultare estraniante e ripetitivo.
E considerando le politiche territoriali, si ripropone la domanda iniziale: è vero che il fattore ambiente è così determinante?

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Un concetto che cambia

Spesso le parole troppo utilizzate si intridono dei diversi significati che, a proposito o a sproposito, vengono loro attribuiti, e finiscono in una specie di anonimato semantico, buono per tutti gli usi.
“Ambiente” è certamente una di queste. Ma la vaghezza del termine, in questo caso, non dipende soltanto dall’approssimazione con cui se ne discute negli ambiti più diversi, e neppure dall’uso un po’ strumentale che ne viene fatto quando si vorrebbe patinare di impegno politico iniziative ordinarie o semplicemente doverose. C’è un’altra causa più sostanziale, e sta nel fatto che negli ultimi decenni il termine ha modificato sostanzialmente il proprio baricentro concettuale.
A partire dal primo ambientalismo, attraverso il dibattito sulla sostenibilità e poi sulla globalizzazione, l’idea stessa di ambiente ha cambiato faccia, si è miscelata con altre idee, si è arricchita di complessità. La visione delle cose ha guadagnato ampiezza a ogni passaggio, come aprendo una porta dopo l’altra fino a uscire all’aperto: e oggi si affaccia un nuovo scenario dove i diversi elementi del problema si ricompongono in modo decisamente diverso dalle ipotesi iniziali.

In realtà, come in tutte le fasi di transizione culturale, questa nuova visione convive con quelle precedenti, che mantengono una loro ragion d’essere, e così la discussione si muove tra almeno tre scenari diversi (per parlare solo di quelli principali), a ognuno dei quali corrispondono preoccupazioni differenti e politiche specifiche, ciascuna in qualche modo adeguata alla visione che risulta prevalente.

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Primo scenario: “Ambiente” è l’insieme delle risorse naturali
E’ stata la prima concezione di ambiente, e quella più immediatamente intuitiva.
Nasce da alcune analisi e constatazioni che si sono consolidate negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, e che hanno preso sempre maggior significato man mano che cresceva la capacità di osservare il panorama mondiale nel suo insieme.
Si è capito che il nostro pianeta è un “sistema chiuso”, con risorse limitate e già gravemente compromesse, che i beni naturali vanno preservati come il patrimonio più prezioso affidato alla nostra specie, e che, per ottenere questo risultato, è indispensabile quantomeno comprendere a fondo i complessi meccanismi che regolano l’ecosistema.

Sono concetti che ancora oggi fanno fatica ad essere assimilati, e che trenta o quarant’anni fa avevano un significato esplosivo, perché in realtà stravolgono alcuni fondamenti della logica industriale e mercantile. La “questione ambientale” dimostra che alcune regole vanno cambiate. Bisogna abituarsi all’idea che lo sviluppo economico – quantomeno quello basato sul prelievo di risorse – non può essere illimitato, come peraltro avevano supposto alcuni economisti. E bisogna fare i conti con il fatto che l’inquinamento crescente genera nuovi costi che la collettività non è disposta a subire e che vengono rimandati al mittente, trasformandosi in riduzione dei profitti delle imprese. A tutto ciò si aggiunge una crescente mobilitazione dell’opinione pubblica, che rivendica il diritto di vivere in un ambiente sano e godibile.

In pratica, questo primo scenario richiede nuovi criteri di vigilanza, affinché le risorse naturali siano salvaguardate e protette.
Si sviluppano quindi le politiche per la protezione dell’ambiente e prendono corpo istituzioni e ambiti normativi per così dire “specializzati” nell’identificare e proteggere ciò a cui il termine “ambiente” si riferisce, cioè le risorse naturali. I governi dei paesi occidentali si dotano di ministeri appositi e nascono leggi dedicate alla gestione del verde e delle aree protette, al contenimento delle emissioni in atmosfera, alla protezione delle acque, alla gestione dei rifiuti. Queste politiche e regolamentazioni vengono definite “ambientali”, distinguendole da quelle che non sembrano incidere direttamente sulle risorse naturali, come ad esempio la sanità, i trasporti, la sicurezza sul lavoro o l’istruzione.

Parallelamente il tema penetra e si diffonde nel tessuto sociale. La cultura ambientale diventa movimento e nasce il primo “ambientalismo”, in difesa del patrimonio naturale e in opposizione a decisioni sbrigative che compromettono gli equilibri dell’ecosistema. Si moltiplicano i professionisti della denuncia, sociale o scientifica che sia, i quali formulano argomentazioni dettagliate e provocatorie, e a volte sconfinano in atteggiamenti maniacali, puntigliosi quanto approssimati. Il che offre l’opportunità, a quelli che vorrebbero ignorare il problema, di aggrapparsi agli aspetti più esili del sentimento ambientalista per vanificarne il significato originario e alimentare lo stereotipo del militante fondamentalista: scarpe da tennis e striscione di denuncia, vegetariano, animalista, genericamente contro il progresso e propugnatore di un ritorno sognante alla vita agreste.

In realtà la cultura del primo ambientalismo ha meriti straordinari e non va liquidata relegandola agli slogan protezionistici che spesso ne sono stati il risultato più visibile. Proteggere le foreste tropicali, l’acqua degli oceani e le specie in estinzione non corrispondeva soltanto all’esigenza primaria di conservare queste risorse per il futuro, ma partecipava già di un’apprensione sistemica che altre discipline non avevano ancora sedimentato. Preservare il panda (animale simbolo del WWF) è un modo per ricordare che ogni specie svolge un ruolo fondamentale in relazione alle altre, che l’ecosistema è legato a regole più complesse di quanto immaginiamo e che il nostro rapporto con la natura, pur agendo in condizioni di sostanziale incertezza, è spesso arrogante e grossolano.
Una specie di sineddoche ambientale, dove l’attenzione puntuale a una parte serve a ricordare le regole del tutto.

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Secondo scenario: “Ambiente” è l’interazione
tra le risorse naturali e le attività umane

E’ la concezione di ambiente che presenta i confini più incerti, e che nasce da una specie di “contrattazione” tra competenze e discipline diverse.
Il problema è: dove comincia e dove finisce la componente ambientale nei diversi fenomeni della realtà che ci circonda? Quali attività, e in che modo, incidono sull’ambiente? E a chi tocca la responsabilità di gestione?
Mano a mano che vengono costruite le politiche ambientali, si apre un contenzioso crescente, all’interno delle istituzioni pubbliche e private, per decidere cosa debba essere considerato “ambientale” e cosa no, e quindi chi debba adeguarsi a quelle politiche.

A livello legislativo la contraddizione è diventata molto evidente e contribuisce a rendere instabile la nozione stessa di diritto. Il diritto ambientale, infatti, dovrebbe innanzitutto identificare il proprio oggetto – il “bene ambiente” – e poi regolare i comportamenti sociali affinché quel bene risulti pienamente disponibile alla collettività. Ma non essendo chiaro il punto di partenza, la normativa ambientale interviene in modo discontinuo, guidata da criteri di emergenza, a volte su questioni che sono diventate “ambientali” per differenza, semplicemente perché non potevano essere regolate altrove. E diventa pervasiva, cioè assume la tendenza a invadere e contaminare altre normative, penetrando nella generalità dell’ordinamento giuridico.
Così cominciano le contrattazioni tra i diversi enti preposti a regolare il problema. Ad esempio, chi decide se i residui delle lavorazioni industriali sono rifiuti o materia che rientra nel ciclo produttivo? Va valutato rispetto ai processi di lavorazione (competenza: Ministero Attività Produttive) o rispetto alla gestione dei rifiuti (competenza: Ministero Ambiente) o ancora rispetto alla tutela della salute pubblica (competenza: Ministero Salute)? La variante di valico appenninica è questione di viabilità (Infrastrutture) o di impatto sul territorio (ancora Ambiente)? Le biotecnologie e gli OGM riguardano la sanità pubblica e l’alimentazione (Salute e Politiche Agricole) o la regolazione della biodiversità (sempre Ambiente)?
Problemi analoghi si presentano a livello economico (considerando i costi ambientali, fin dove si estende il costo di una attività o di un prodotto?), a livello sociale (come e quanto deve essere pubblico il patrimonio naturale?), a livello scientifico (quali dati e parametri vanno considerati per circoscrivere il problema?) e così via.

In realtà questa visione corrisponde semplicemente a una fase più diffusa e matura della cultura ambientale, che passa dalla considerazione del proprio oggetto ristretto (la natura) alla esplorazione di tutti i fattori che su quell’oggetto influiscono.
Non si può sperare di proteggere le risorse naturali se non si interviene sulle cause principali che ne stanno provocando il degrado, e se queste cause stanno nella produzione industriale, nei servizi, nei trasporti, nelle infrastrutture, allora occorre analizzare con cura ciascuno di questi ambiti.
In questo modo la politica ambientale assolve a due compiti: da un lato individua, caso per caso, i fattori di maggiore impatto, e ne limita gli effetti; dall’altro promuove investimenti per migliorare lo stato dell’ambiente e valorizzare il patrimonio naturale. E conseguentemente propone la “competitività ambientale” come una opportunità che può essere valorizzata dal mercato.

In altre parole, muovendosi lungo la catena delle cause e degli effetti, l’ambiente chiama a rapporto le altre discipline per responsabilizzarle a tener conto delle conseguenze e degli impatti che potrebbero essere generati. E le altre branche del sapere cercano di conciliare se stesse con l’ambiente, dotandosi di strumenti, indicatori, controlli di gestione specifici. Insomma, di una “cassetta degli attrezzi” in grado di fornire risposte adeguate alla sfida.

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Terzo scenario: “Ambiente” è l’insieme
di tutte le risorse disponibili

E’ la concezione di ambiente che deriva dal concetto di sostenibilità, dove gli elementi ambientali, sociali e economici sono praticamente indistinguibili.
Quando nel 1987 il Rapporto della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo fornì la prima definizione di sostenibilità, la formula ebbe immediato successo per la sua folgorante semplicità. E’ sostenibile quello sviluppo che “fa fronte alle necessità del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le proprie esigenze”. Un principio incontrovertibile di democrazia e buon senso. Il fatto è che questa dichiarazione comporta un progetto politico di cui è chiara solo la premessa, e cioè che se il modello di sviluppo attuale viene riconosciuto e denunciato come non sostenibile, occorre cambiarlo. Ma come? E questo cambiamento sostanziale quanti altri cambiamenti comporta nell’organizzazione economica, politica e sociale?

Inizialmente il principio della sostenibilità è stato interpretato come un programma finalizzato alla conservazione delle risorse naturali, ma non appena si è cercato di tradurlo in politiche concrete ci si è resi conto che il problema è inestricabilmente intrecciato con scelte economiche e sociali di enorme portata. Tanto che, prima ancora di studiare le ricette ecologiche per la migliore conservazione, sembra necessario ridiscutere le regole della produzione, quelle del mercato, gli stili di vita e la struttura delle istituzioni politiche.

Il cambiamento di ottica, iniziato in sordina, apre a prospettive decisamente nuove.
Rispetto al secondo scenario appena descritto si inverte l’ordine delle priorità: in quel caso l’ambiente naturale sta ancora al centro della scena e va a rintracciare in altri ambiti le componenti che lo riguardano, per tornare a se stesso e garantire il proprio equilibrio. In questo scenario invece occorre mettere al primo posto i fattori economici e politici – quelli cioè che dettano le regole del gioco – cercando di conferire loro un’armonia di sistema che sia compatibile con l’ecologia della natura e della società.
Le risorse ambientali sono all’origine di gran parte delle ricchezze circolanti nel pianeta? Allora non si può proteggerle o regolarle senza ritoccare i diversi meccanismi che fino ad oggi hanno regolato la distribuzione delle ricchezze. Anzi, la distribuzione delle risorse, di tutte le risorse, diventa il problema centrale e per questo l’ambiente deve farsi interprete di nuovi modelli di civiltà.

A questo punto, per affrontare seriamente la sostenibilità, dobbiamo fare riferimento a un concetto decisamente inedito di “ambiente”, che contiene indistintamente tutte le risorse disponibili, naturali o artificiali che siano, considerando anche quelle monetarie. Un ambiente che ha come strumenti regolatori tutti i settori della produzione e dei servizi, e che è vincolato ai criteri culturali e politici che organizzano la nostra vita di relazione. In pratica, un ambiente che assomiglia sempre di meno alla natura incontaminata e tende gradualmente a sovrapporsi a quella che potremmo semplicemente chiamare “la realtà che ci circonda”.
Una definizione sconcertante rispetto ai confini del primo ambientalismo, o forse neppure una definizione, visto che gli orizzonti concettuali di questa idea sono, per l’appunto, ancora indefiniti. E’ uno scenario che, già dalla sua enunciazione, può incutere una certa soggezione, perché pone la cultura ambientale di fronte a una scommessa difficile e la chiama a responsabilità alle quali non è ancora del tutto preparata.

Va ricordato tuttavia che il cambiamento è già in atto: la sostenibilità sta già trovando attuazione concreta attraverso scelte e orientamenti internazionali che valutano l’integrazione dei fattori economici, politici e ambientali. Esistono decine di organizzazioni e istituti specializzati che affrontano la questione ambientale promuovendo un nuovo rapporto tra impresa e ambiente, nuovi strumenti di mercato e nuove politiche di prodotto. Il VI Programma di azione della Comunità europea – in via d’approvazione dopo il parere positivo espresso dal Consiglio dell’Unione Europea nel 2001 – propone, tra le direttrici prioritarie, l’integrazione delle tematiche ambientali nelle altre politiche e la necessità di “collaborare con il mercato”. Sono orientamenti che progrediscono senza enfasi e sbandieramenti, con la discrezione e l’apparente neutralità degli atti istituzionali, ma portano con sé un rinnovamento di enorme portata.
Ciò nonostante questo quadro solleva molte obiezioni. Perché mai la politica ambientale – che non ha ottenuto successi così clamorosi – dovrebbe candidarsi, lei, a divenire paradigma per qualunque politica futura? E poi, armonizzare le regole sociali e economiche in una nuova “ecologia della politica” è un’utopia pericolosa; non si corre il rischio di seppellire il libero arbitrio in una specie di totalitarismo ambientale?
Obiezioni legittime. Ma la titolarità della politica ambientale a investirsi di questo ruolo non dipende soltanto dalle idee dell’ambientalismo. C’è qualcosa di più sostanziale, che non è legato alle teorie ma piuttosto al processo reale da cui sono scaturite, al fatto che l’ambiente ha richiesto di analizzare il contesto in cui ci muoviamo, ci ha imposto di guardare con rispetto ciò che è diverso, valutare relazioni fragili e dirompenti che ci eravamo dimenticati di considerare e che ripropongono, in una nuova luce, la necessità della politica.

L’ambiente ha riportato a nozione comune la consapevolezza di quella “complessità” che negli anni più recenti ha invaso e sovvertito la fisica, la biologia, le scienze cognitive e in generale la struttura del pensiero contemporaneo.
Ha fatto i primi passi nel modo più tangibile e concreto. Potrebbe farcela.

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Gestire la transizione

Come si diceva all’inizio, i tre scenari descritti (insieme ad altri intermedi o collaterali) si sovrappongono e convivono. Ciascuno rivendica una sua funzione, e in effetti la svolge. Sono le prospettive che cambiano. Infatti, a seconda dello scenario a cui si fa riferimento, la strategia che ne consegue mobilita forze sociali, istituzioni e politiche differenti.
Potremmo per il momento chiamarli “Ambiente Primario”, “Ambiente Incrementale” e “Ambiente Sociale”, sperando in altri nomi più convincenti che troveremo nel tempo. L’importante è non fare confusione. Sapere, ogni volta, a quale scenario si fa riferimento per riuscire a collocare i programmi e gli obiettivi in un quadro comprensibile. E condividere con chiarezza gli strumenti che si sceglie di utilizzare.

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Educare le idee (far capire il problema)
Il primo scenario, ad esempio, continua ad essere fondamentale per tutti coloro che ancora non si sono resi conto che le risorse naturali sono un bene straordinario quanto fragile. E non sono pochi. L’idea dell’uomo dominatore, che combatte la natura e la assoggetta al proprio servizio, è dura a morire.
A tutt’oggi sono moltissime le occasioni in cui la difesa della natura deve essere sostenuta con forza, come fosse un concetto inedito. L’inquinamento selvaggio non è debellato, la disinformazione e l’indifferenza persistono e gli interventi per arginare i grandi rischi del pianeta sono ancora lontani. Da molti punti di vista potremmo dire che è ancora quasi tutto da fare.
E’ vero. Tuttavia la visione legata esclusivamente all’ “Ambiente Primario” è un po’ invecchiata nel tempo, perché non riesce a sganciarsi da un atteggiamento allarmistico e difensivo. Puntare tutto su un concetto, certamente nevralgico, come quello di protezione è pericoloso perché non apre prospettive. Il suo obiettivo finale coincide col suo stesso punto di partenza: salvare la natura. E il suo strumento immediato è un sistema di denunce e controlli.

Ma se dovessimo dire che l’ambientalismo serve solo a denunciare, dovremmo contestualmente riconoscere che ha già svolto la sua funzione ed è pronto a passare le consegne ad altre politiche che siano in grado di disegnare il futuro. Come è avvenuto per la grande battaglia contro lo schiavismo, o sta avvenendo per il movimento femminista.
Insomma, con l’ambientalismo di denuncia non ci si può fare un programma strategico e d’altro lato senza un programma costruttivo e concreto la denuncia non avrà mai un peso sufficiente a raggiungere l’obiettivo che si propone. Per questo il primo scenario richiede necessariamente qualcos’altro.

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Mirare al futuro (preparare quello che si intuisce)
Il terzo scenario, centrato sull’ “Ambiente Sociale”, propone un’intuizione affascinante che ci vede ancora impreparati.
Va ricordato che esso non nasce solo dall’idea della sostenibilità, ma anche dalla spinta proveniente dal dibattito sulla globalizzazione. La nuova cultura ambientale e la critica a una globalizzazione non governata partono dalle stesse domande, e condividono l’esperienza di non possedere ancora un linguaggio e un modello nel quale collocare le risposte.
Entrambe si confrontano con una varietà enormemente articolata di problemi e fenomeni diversi, partendo da una sola certezza: che considerare ogni pezzo del mosaico come a sé stante non può portare a soluzioni. Anzi, che le diseguaglianze, le distorsioni e le prevaricazioni che permangono nella nostra realtà globalizzata provengono dal fatto di ragionare ancora per ambiti separati. E per questo di volta in volta – per incapacità o per scelta – vengono isolati segmenti di realtà, perdendo il nesso con ciò che determina il loro equilibrio o addirittura il loro significato.
Inoltre, entrambe le culture arrivano, attraverso percorsi differenti, a mettere in discussione il modo attuale di distribuire le risorse. Dal punto di vista dell’economia globale si tratta di ridistribuire le ricchezze, abolendo le forme più intollerabili di sfruttamento del Terzo Mondo. Dal punto di vista ambientale, l’unico modo per preservare il patrimonio naturale da speculazioni distruttive è riaffidarlo alla responsabilità comune, secondo forme di partecipazione e gestione che vanno ancora individuate.
Non basta: col crescere dell’analisi entrambe le visioni si affacciano a un problema che è forse il principale tabù delle civiltà occidentali, quello cioè di rivedere i principi che regolano il confine tra proprietà privata e bene collettivo. Un confine ereditato dai secoli passati e assunto sbrigativamente come dogma dalle discipline economiche, che oggi sono costrette a inventare artifici linguistici e contabili (come le “esternalità” positive o negative) in attesa di riformare la propria sintassi.

Anche in questo caso va ricordato che molti interventi correttivi sono già in corso, utilizzando gli “strumenti ordinari” offerti dalla normativa vigente e dai cosiddetti “accordi volontari”. Quando un comune decide se un’area va destinata a servizi comuni o a edilizia privata sta già operando in termini di distribuzione delle risorse. Quando una norma spinge un’azienda a modificare il proprio modo di produzione per limitare le emissioni in atmosfera, sta già agendo sul “confine tra proprietà privata e bene collettivo”. Le azioni esistono: è il loro coordinamento a sistema che deve essere ancora analizzato e compiuto.
Questo scenario, quindi, rappresenta la crescente consapevolezza del problema ma non ancora quella delle soluzioni. E’ già molto, perché ci avverte che sta avvenendo un cambiamento di scala nel modo di considerare e affrontare le questioni del nostro tempo.
Ma il cambiamento di scala richiede una strumentazione adeguata, che a sua volta ha bisogno di essere collaudata e filtrata attraverso una molteplicità di esperienze e tentativi diversi. Non si può, in un colpo solo, cambiare culture e civiltà che si sono stratificate nei secoli. Occorrono nuove competenze e nuove formule di partecipazione al problema.
E qui prende significato quello che abbiamo chiamato secondo scenario.

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Provare e riprovare (con la “cassetta degli attrezzi”)
L’idea che l’ambiente sia una realtà complessa, di cui occorre rintracciare i nessi in tutta la realtà circostante, è quella che corrisponde al modo attuale di operare della politica ambientale.
Di fatto siamo in una realtà di transizione, dove si lavora all’interno del secondo scenario cercando di prendere la mira sul terzo.
Il primo impegno è quello di ridefinire i confini della responsabilità ambientale e cogliere le relazioni tra questa e le altre responsabilità – sociali, economiche e politiche – che disegnano il nostro presente. E poi occorre, caso per caso, trovare le formule per amministrare questa nuova miscela di ruoli e di diritti.
E’ questo l’insieme di operazioni che vengono raccolte sotto il titolo generale di “riforma della governance”. Si tratta di una formula che fa riferimento soprattutto alle strutture di governo locale, che sono il terreno ideale di sperimentazione in quanto presentano capacità di adattamento e progettualità molto superiori a quelle delle amministrazioni centrali.
Le attività e i modelli proposti sono molto numerosi, con grande vivacità di discussioni e confronti. Da un lato esistono studi, consolidati a livello internazionale, per aggregare in modo integrato i diversi fattori ambientali, economici e sociali implicati. Dall’altro vengono sperimentati strumenti di gestione che facilitano la valutazione dei problemi e le decisioni conseguenti da parte degli amministratori.
Così sono nati innumerevoli set di indicatori, a livello locale o globale, e nuovi modelli per “contare e rendicontare” le spese e gli investimenti sul tema, come la Contabilità ambientale cui è dedicato il Progetto CLEAR. Contabilizzare gli aspetti economici e sociali insieme a quelli ambientali, integrandoli nel processo ordinario di gestione, è uno strumento tanto più potente ed efficace quanto più si “normalizza” nelle procedure decisionali di un ente.

Si aggiungono poi altri strumenti per la qualificazione ambientale (certificazioni, registrazione EMAS), che rendono riconoscibili le organizzazioni che abbiano adottato un Sistema di Gestione Ambientale, con facilitazioni procedurali e incentivi.
Questo repertorio di strumenti si integra con altre sperimentazioni a livello sociale, rivolte alla ricerca di nuovi modelli di partecipazione e democrazia diretta. Dalle Agende 21 Locali alle varie forme di concertazione e patti territoriali, fino a nuove proposte di autogoverno, come la “Carta del nuovo municipio” presentata da Mercedes Bresso al World Social Forum di Porto Alegre.

Metodi, strumenti e modelli spesso non sono coerenti tra loro, perché, per l’appunto, fanno riferimento a un concetto di ambiente che di volta in volta ha dimensioni e significati diversi. Ci sono inevitabili impacci che derivano dalla rigidità delle discipline disponibili, spesso “forzate” a valutare categorie non previste. Si è ancora costretti, ad esempio, a considerare separatamente gli aspetti fisici da quelli monetari, perché non sono disponibili strumenti validati in grado di integrarli.
E in tutto questo va creandosi una distinzione sempre più netta tra l’idea di sostenibilità e quella di uno “sviluppo” sostenibile, in quanto molti ritengono che il miglioramento sociale non debba per forza essere legato alla crescita economica, cioè alla quantità dei beni scambiati nel mercato.

Insomma, nella discussione che stiamo vivendo si accumulano fattori diversi che interferiscono reciprocamente e compongono un quadro estremamente mobile.
Il vantaggio di questo scenario, apparentemente difficile e incerto, sta nella sua continua capacità di interrogare il problema, approfondire nessi e correlazioni che rimettono ogni volta in discussione le categorie di riferimento.
Il che rende più complessa l’elaborazione, ma produce risultati che possono realmente disegnare le regole del nostro futuro e testimonia del fatto che stiamo vivendo una fase storica che sarà difficile dimenticare.

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